Intervista a Lella Palladino

Quali sono state le tappe più importanti della sua vita personale e professionale?

Comincio dalla mia laurea nel 1987. È stato un momento fondamentale per me: una tappa di arrivo e, insieme, il primo piccolo riconoscimento del mio impegno e dei miei studi. Non pensavo che sarebbe andata così bene. Il giorno della discussione avevo una delle docenti più severe, che pretendeva la perfezione: superare quell’esame è stato il punto di partenza, mi ha restituito grande fiducia in me stessa. Credo che uno dei temi centrali della mia vita — e di molte donne — sia proprio quello di costruire, passo dopo passo, un’idea di sé come persona capace di cambiare le cose. Da lì è iniziato il mio impegno, che ha sempre tenuto insieme vita professionale e impegno politico. Nonostante le difficoltà — riconoscimenti importanti ma anche momenti di vuoto lavorativo — mi sono sempre sentita un agente di cambiamento. Il mio studio e il mio lavoro sono sempre stati orientati a spostare un po’ più avanti i diritti delle donne, a creare maggiori opportunità e, soprattutto, a conquistare margini di libertà, sia nella sfera privata che in quella pubblica. Ho rinunciato abbastanza presto alla carriera universitaria. A 27 anni ho avuto il mio primo figlio e conciliare il lavoro di ricerca con la cura e i tempi della vita familiare era molto difficile. Il mio impegno è iniziato prima come volontaria e poi con una borsa di studio dell’Unità Sanitaria Locale di Caserta, lavorando su due progetti per le donne: la prevenzione delle recidive per l’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194) e la prevenzione del cancro al seno. L’attività di monitoraggio dei sette consultori di quel periodo dell’USL di Caserta mi ha formato tantissimo, sia operativamente che politicamente, rispetto alla tutela dei diritti delle donne, in particolare su autodeterminazione, salute e scelte riproduttive. Negli stessi anni ho iniziato a lavorare con gruppi di donne sui temi della violenza. Dopo un primo percorso di formazione, ho fatto esperienza al Telefono Rosa di Caserta e poi, nel 1996, dopo la nascita del mio terzo figlio, ho fondato, collaborando con un’associazione del territorio, il primo centro antiviolenza e la prima casa rifugio per donne maltrattate in Campania. Da lì è cominciato un lavoro sociale che dura da trent’anni che ha una visione nazionale. Ho iniziato a frequentare le reti nazionali, in particolare “Differenza Donna”, e a interessarmi al tema della tratta delle donne a fini di sfruttamento sessuale. A partire dalle difficoltà che vedevo per me e per tante altre donne impegnate nell’associazionismo, ho fondato la Cooperativa Sociale EVA nel 1999. La cooperativa è stata per me “il mio quarto figlio” ed è diventata il luogo in cui ho potuto costruire risposte concrete ai bisogni delle donne, ma anche un pezzo importante del mio impegno politico. La cooperativa esiste oggi grazie a un gruppo di donne che ha contribuito a consolidarla e la conducono. La mia storia è un intreccio di tante storie di donne che ho incontrato e che mi hanno cambiata, il mio ritratto è un “puzzle collettivo”. Se devo pensare a cosa mi ha cambiato veramente la vita, non è stato il lavoro, né la diagnosi di cancro: è stato diventare madre. Lo dico da femminista, senza retorica, ma l’essere madre fa parte della mia identità. I miei 3 figli, con le loro diversità, con le difficoltà e la gioia che mi restituiscono ogni giorno, sono parte di quello che sono diventata.

C’è stata una figura che l’ha ispirata e guidata nella sua vita professionale?

Sicuramente la mia mentore, Amalia Signorelli, che continua a ispirarmi anche dopo la sua scomparsa. Amalia è stata una guida, non scrivo una riga senza pensare al suo metodo, alla sua visione. Mi ha insegnato a partire sempre dalle radici culturali che orientano l’agire sociale, politico e personale. Le dinamiche culturali sono la chiave per leggere i problemi e anche per costruire le soluzioni. Ad esempio quando parliamo di violenza maschile contro le donne, dobbiamo sapere che questa si radica nella cultura. Per cambiare davvero le cose, dobbiamo lavorare sulla cultura che la genera, la riproduce, la legittima. Questo approccio ci permette anche di comprendere la condizione di subordinazione “interiorizzata” da molte donne, ci aiuta a spiegare perché, a volte, sembrano essere complici della loro stessa condizione. È un processo culturale profondo, che va trasformato. Un’ altra figura altrettanto importante nella mia vita è stata mia madre, una donna nata negli anni ’30 che, pur in un’epoca difficile, è riuscita a costruire un percorso di indipendenza personale e professionale. È stata un modello per me. Sono la donna che sono anche grazie a lei, al suo senso del dovere, alla sua forza silenziosa. Con lei ho imparato che l’autonomia si conquista giorno per giorno, anche nel silenzio, anche nell’ombra.

Una vita per la libertà delle donne

C’è un consiglio che darebbe alle giovani donne di oggi?

Il consiglio che darei alle giovani donne che leggeranno questo ritratto è di non fermarsi mai. Essere libere richiede competenza, non basta essere consapevoli: bisogna studiare, capire, confrontarsi. Solo così si costruisce una vera indipendenza, per sé e per le altre.

Più recentemente, nel 2023 ha fondato la Fondazione Una Nessuna Centomila. Che cosa rappresenta per lei?

Nel 2023 ho fondato, insieme a Giulia Minoli e Celeste Costantino, la Fondazione Una Nessuna Centomila. È una tappa importante del mio percorso, l’ennesimo passo per uscire dalla frammentazione e costruire reti. L’obiettivo della Fondazione è ambizioso: la trasformazione culturale del Paese. Usiamo strumenti culturali come il teatro, la musica, il cinema per sensibilizzare, formare, cambiare. Il nostro impegno è anche sostenere economicamente e valorizzare i centri antiviolenza, di qualsiasi rete siano. Crediamo che la cultura possa davvero essere motore di cambiamento. Per questo lavoriamo sull’educazione all’affettività, sulla formazione, sulla comunicazione sociale. Il prossimo concerto della Fondazione sarà il 25 settembre 2025 a Napoli. Spero sia un segnale forte per la nostra città.

Tanto impegno, tanto lavoro. Ma quando il carico emotivo e fisico diventa grande, come riesce a ricaricarsi?

A me dà energia il senso di quello che faccio. Mi sento stanca solo quando non vedo risultati ma se incrocio lo sguardo di una donna più serena, di un bambino che non ha più paura, se vedo i numeri delle donne occupate nella cooperativa o la partecipazione alle assemblee della fondazione, tutto ha senso. Quello che mi da forza è sapere che non sono sola perché insieme a me c’è un grande gruppo di lavoro. La cooperativa Eva è un approdo, anche quando ci sono difficoltà. Altra cosa che mi dona energia è nuotare, sedermi in riva al mare e guardarlo. È quello che mi rilassa davvero, ma me lo concedo poco.