DONNE DI NAPOLI
Diana de Rosa

Pittrice talentuosa del Seicento, è attiva nella Napoli del Viceregno. Con la maggior parte delle sue opere perdute nel tempo e scarsa documentazione biografica, Diana De Rosa rimane una figura affascinante e misteriosa dell'arte napoletana, la cui personalità artistica è problematica per la difficoltà di identificare opere di sua produzione tra quelle superstiti, spesso disperse in collezioni private, e tra altre alle quali aveva semplicemente collaborato.. Nacque a Napoli nel 1602 e fu pittrice molto apprezzata e richiesta, certo non come la più celebre Artemisia Gentileschi sua contemporanea, che, romana, nella città partenopea morì nel 1653, dieci anni dopo di lei. Meglio nota come Annella De Rosa o Annella di Massimo, la sua vicenda getta luce sulla realtà artistica napoletana del XVII secolo, in cui intere famiglie e parentele erano dedite all'arte pittorica. Figlia del pittore Tommaso De Rosa e di Caterina De Mauro, era sorella di Giovan Francesco (Pacecco) De Rosa, lui pure pittore. Quando il padre morì nel 1610, la madre si risposò con il pittore Filippo Vitale, esponente di rilievo della pittura naturalistica di ascendenza caravaggesca. Diana fu probabilmente alla scuola di questo patrigno, che le trasmise i primi rudimenti dell'arte. Nel 1626 sposò Agostino Beltrano, pittore della bottega di Massimo Stanzione, uno dei più importanti pittori del Seicento a Napoli, soprannominato "il Guido Reni napoletano". Dello Stanzione, Diana fu allieva prediletta: di qui l'essere anche conosciuta come Annella di Massimo. Intorno alla figura di Diana si sviluppò una leggenda romantica e tragica. Il biografo settecentesco Bernardo De Dominici raccontò che fu uccisa con una spada dal marito Agostino Beltrano per gelosia, poiché questi sospettava una relazione tra la moglie e il maestro Stanzione. Tuttavia, la ricerca storica moderna ha smentito questa leggenda drammatica. Nel 1951 lo studioso Prota Giurleo ha ritrovato l'atto di morte originale di Diana, che attesta come la pittrice morì di malattia il 7 dicembre 1643, non per mano del marito. Il documento rivela inoltre che Diana aveva avuto una carriera di successo, lasciando ai figli una discreta somma di denaro guadagnata attraverso la sua attività artistica e quella del marito. Alla stregua dei pittori del suo tempo, Diana-Annella dipinse numerose opere di soggetto sacro per chiese o per la devozione privata. Perduti purtroppo due lodatissimi dipinti con la Nascita e la Morte della Vergine collocati sul soffitto della chiesa di Santa Maria della Pietà dei Turchini, che andarono distrutti nel crollo del tetto nel 1638. Al Museo di Capodimonte rimane forse il bozzetto della Nascita della Vergine. Perduti anche la Vergine che appare a santi benedettini della chiesa di Monteoliveto (Sant'Anna dei Lombardi) e il San Giovanni Battista nel deserto della sacrestia di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone. Tra le opere che oggi possiamo ammirare, due sono esposte nel Museo diocesano di Napoli: lo Sposalizio della Vergine e, proveniente dalla chiesa di San Giovanni Maggiore, Gesù nella bottega di San Giuseppe. Recente è la scoperta, in una collezione privata napoletana, di un Martirio di sant'Agata con la firma chiaramente riconoscibile "Annella di Massimo", che conferma l'uso contemporaneo di questo soprannome, contrariamente a quanto si credeva in passato. Il soprannome "Annella di Massimo", che si pensava fosse stato inventato dal De Dominici nel Settecento, è invece dell'epoca, come dimostrano alcuni antichi inventari del 1648 e del 1715 che citano opere attribuite a questa pittrice. Diana De Rosa rappresenta un esempio significativo delle donne artiste del Seicento napoletano, che riuscirono a emergere in un ambiente dominato dagli uomini, costruendo carriere professionali di successo all'interno delle botteghe familiari e delle scuole dei grandi maestri del tempo. La sua figura, avvolta tra storia e leggenda, continua ad affascinare studiosi e appassionati d'arte, testimoniando la vitalità dell'ambiente artistico napoletano del XVII secolo.
Chiesa della Pietà dei Turchini
Situata in via Medina, la Chiesa della Pietà dei Turchini è una delle chiese monumentali della città di Napoli. Il suo nome deriva dal colore turchese dell’abito indossato dagli orfani accolti nell’adiacente istituto, fondato tra il 1592 e il 1607, il quale comprendeva chiesa, orfanotrofio e conservatorio musicale. La costruzione della chiesa risale alla fine del XVI secolo: l’edificio fu completato nel 1595. In origine, la pianta si presentava con un’unica navata e cinque cappelle per lato. Nei decenni successivi, tra il 1633 e il 1639, si procedette a un ampio intervento di ampliamento che portò alla realizzazione del transetto, dell’abside e della cupola, grazie a un fondo raccolto dai governatori dell’istituto con il sostegno di generosi benefattori, tra cui il noto mercante-banchiere Gaspar Roomer. Per permettere l’ampliamento della chiesa, fu necessario acquistare e demolire alcuni edifici vicini. I lavori furono condotti dall’architetto Felice di Marino, mentre le strutture in ferro furono realizzate da Diego Pacifico e Giovan Battista Vinaccia. I vetri furono affidati a Carlo Armenante. Nel corso dei secoli, la cupola fu oggetto di numerosi interventi di consolidamento strutturale: nel 1674 l’intera struttura venne rafforzata da Giovan Jacopo di Marino sotto la supervisione del regio ingegnere Luise Naclerio; successivamente, dopo il devastante terremoto del 1688, fu inserito un cerchio di ferro per imbrigliare la cupola. Ulteriori restauri si ebbero nel 1725, dopo le peripezie degli ingegneri Filippo Marinelli, Giuseppe Stendardo e Cristoforo Sion, che denunciarono la fragilità della struttura. Il sisma del 1723 aggravò ulteriormente la situazione, rendendo necessario un nuovo intervento l’anno seguente. Nel 1739 fu affidata a Donato Massa e a Carlo Dellifranci la posa in opera del pavimento. Tra il 1769 e il 1770, l’ingegnere Bartolomeo Vecchione curò sia la progettazione di un atrio monumentale (oggi scomparso, ma visibile nella pianta del duca Carafa di Noia del 1775), sia il rifacimento della facciata, oggi ornata da stucchi rococò e preceduta da una cancellata in ferro battuto. L’interno della chiesa presenta una navata unica con dieci cappelle laterali e due cappelloni nel transetto. Lo stile architettonico riflette i criteri della controriforma, con un impianto solenne e funzionale alla liturgia. Ciascuna cappella è arricchita da opere pittoriche o affreschi eseguiti da alcuni dei più importanti artisti del panorama napoletano e italiano del Seicento e Settecento, tra cui Luca Giordano, Paolo De Matteis, Battistello Caracciolo, Andrea Vaccaro e Belisario Corenzio. Le tele, spesso di grandi dimensioni, affrontano temi sacri legati alla vita di Cristo, della Vergine e dei santi, rispecchiando la profonda funzione catechista dell’arte sacra post-tridentina.
