Nel contesto della Roma di fine Cinquecento, una città in piena trasformazione sotto l’impulso urbanistico di Papa Sisto V nasceva l'8 luglio 1593 Artemisia Gentileschi. Questa era una Roma che stava ridefinendo il proprio volto, con la creazione di nuove arterie come la Via Sistina, destinate ad ospitare edifici sacri e palazzi che richiamavano artisti da ogni angolo d'Italia. In questo fermento creativo, Artemisia, figlia d'arte, avrebbe mosso i primi passi, destinata a lasciare un segno indelebile nella storia della pittura.
Figlia del pittore Orazio Gentileschi, celebre artista di origine pisana e Prudenzia Montoni, che muore quando lei aveva 12 anni, Artemisia intraprese il suo apprendistato artistico nella bottega del padre dimostrando precocemente un talento che avrebbe sfidato le convenzioni della sua epoca dominata dagli uomini. La famiglia di Artemisia, seppur di modeste risorse, le permise di intraprendere la carriera artistica grazie al padre. Artemisia mostrò un precoce talento, ricevendo la prima formazione direttamente da Orazio. In seguito, per perfezionare le sue capacità, il padre le affidò insegnanti esterni, tra cui Agostino Tassi, che le impartì lezioni di prospettiva pittorica.
La sua carriera iniziale fu segnata sia da una fioritura artistica che da un profondo trauma personale. A soli 17 anni, nel 1610, completò la sua prima opera conosciuta, Susanna e i Vecchioni. Questo dipinto, che raffigura una Susanna vulnerabile assediata da due anziani uomini lascivi, si distingue per la sua intensa emotività e la realistica rappresentazione dell'angoscia della protagonista. Un momento cruciale nella sua vita e nella sua arte si verificò nel 1611, quando subì violenza fisica per mano di Agostino Tassi. Il successivo processo pubblico del 1612, in cui Artemisia testimoniò coraggiosamente nonostante avesse subito torture per verificare il suo racconto, divenne un evento notorio. Tassi fu condannato, ma riuscì a eludere la pena a causa degli appoggi politici di cui godeva, mentre Artemisia fu costretta a lasciare la capitale per salvaguardare il proprio onore e la carriera appena avviata. Poco dopo il processo, nel novembre 1612, Artemisia sposò Pierantonio Stiattesi, un artista fiorentino, e la coppia si trasferì a Firenze nel 1614.
A Firenze, Artemisia trovò la protezione della potente famiglia Medici, inclusi Cosimo II de' Medici e sua moglie Cristina di Lorena. Ad Artemisia è concesso di lavorare come artista perché il marito è egli stesso pittore. A Firenze ha l’occasione di conoscere Galileo Galilei e di stringere amicizia con Michelangelo Buonarroti il giovane per il quale dipinge l’Allegoria dell’inclinazione.
La sua statura artistica fu riconosciuta nel 1616, quando divenne la prima donna ammessa alla prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze, dove rimase iscritta fino al 1620, anno in cui tornò a Roma.
Dopo un periodo a Roma, durante il quale dipinse opere come il Ritratto di Gonfaloniere, Artemisia si trasferì a Venezia nel 1627, e poi a Napoli nel 1630. A Venezia le commissionano molti quadri e collabora con Nicholas Lanier, agende incaricato dal re d’Inghilterra di acquistare opere d’arte in territorio italiano. Napoli si rivelò un vivace centro artistico, e lei si affermò rapidamente come una figura di spicco, nonostante avesse espresso il desiderio di tornare a Roma. Opere notevoli del suo periodo napoletano includono l’Annunciazione e il suo celebre Autoritratto come allegoria della Pittura dove rappresenta sé stessa mentre è intenta a lavorare. Nel 1636, Artemisia si recò a Londra, raggiungendo il padre Orazio, che era stato chiamato dal re Carlo I. Insieme, collaborarono a progetti come Il Trionfo della Pace e delle Arti per la Queen's House a Greenwich. Dopo la morte di Orazio a Londra nel 1639, Artemisia tornò a Napoli, dove rimase per il resto della sua vita. Sebbene si sappia meno dei suoi ultimi anni, continuò a lavorare, ricevendo commissioni da mecenati come Antonio Ruffo. La morte di Artemisia Gentileschi a Napoli avvenne qualche tempo dopo il 1653, forse nel 1654 o nel 1656, anche se la data esatta rimane incerta. Le opere più significative di Artemisia risuonano spesso con le sue esperienze personali, in particolare i suoi primi dipinti. Giuditta che decapita Oloferne, di cui esistono due versioni (una del 1612 circa e un'altra realizzata a Firenze, entrambe con una violenza sorprendente e un'intensità drammatica che molti critici hanno interpretato come una rielaborazione del suo trauma), è emblematica del suo approccio. A quel tempo, le poche pittrici note erano spesso limitate a dipingere solo nature morte e ritratti, sebbene raggiungessero risultati eccellenti in questi campi. Artemisia, invece, sviluppò la sua arte partendo dalla lezione del padre Orazio, ma se ne distaccò notevolmente. Mentre il padre prediligeva un realismo idealista di stampo toscano, lo stile di Artemisia si distingueva per la sua forte impronta realistica e teatrale. Artemisia si dedicava spesso a soggetti tratti dall'Antico Testamento, focalizzandosi non tanto sulla pura vendetta femminile contro la prevaricazione maschile, quanto piuttosto sulla ricerca di giustizia compiuta da donne. Il suo tema più celebre è senza dubbio Giuditta e Oloferne, di cui esistono due versioni quasi identiche. Le figure femminili dipinte da Artemisia si discostano nettamente dai modelli del suo tempo, che spesso le relegavano a due sole rappresentazioni: distaccato e angelico o terreno e corrotto. Nelle sue opere, le donne sono sempre protagoniste attive, che reagiscono con forza o esprimono apertamente il loro sdegno e giudizio morale. In questo modo, l'artista invita chi osserva il quadro a farsi partecipe e a giudicare l'affronto rappresentato.