Intervista a Marina Rippa

Come nasce il tuo impegno e quando hai scoperto che il teatro può diventare uno strumento per ridurre le disuguaglianze, per promuovere i diritti?

Scrivere della passione per quello che faccio. Come è nata. Come è cresciuta. Come continua ad alimentarsi. E questo porta indietro ma anche in avanti nel tempo. Sono nata a Napoli, nel 1961. E ancora qui, vivo.

Raccontaci il tuo percorso, cosa ti ha spinto ad impegnarti in questo campo?

Nella vita mi hanno sempre accompagnata: l'amore per la danza, anche se fatta dagli altri, per la musica, e per la poesia. Poi sono arrivate le storie con le donne. Il coinvolgimento nei collettivi scolastici. Nel '77, a sedici anni, la raccolta di firme per l'aborto. E tutto quello che riguarda l'intervento nel sociale. Coi minori, gli anziani, le donne, nei quartieri cosiddetti “difficili” della mia città. Devo molto alla mia insegnante di educazione fisica della scuola media. “Attraverso il movimento si arriva dove si vuole” diceva. Noi all'inizio trovavamo ovvia questa frase, ma col tempo abbiamo compreso che quell'arrivare non era riferito ad un luogo, ma a un modo. Grazie a lei ho scelto di frequentare l'ISEF ( Istituto Superiore di Educazione Fisica), una volta finita la scuola superiore. E all'Isef ho incontrato Renata Facheris Ranucci. La sua prima lezione: una finestra su un nuovo mondo... Ci accolse con le parole dal volume “Verso una scienza del movimento umano” di Jean Le Boulch, nostro libro di testo: ”La mia posizione - scriveva Le Boulch - è vicina a quella di Wallon che ha difeso la necessità di una educazione attraverso il movimento, la cui base è rappresentata dall’educazione psicomotoria che si applica a tutti i soggetti in sviluppo. La finalità della nostra azione sull’uomo è lo sviluppo della persona, come condizione di un migliore adattamento del comportamento alle norme socio-culturali e dell’acquisizione della responsabilità nel quadro della vita sociale”. Non avevo mai sentito parlare di educazione al movimento come di educazione della persona e la cosa mi rapì immediatamente. La prof. Ranucci insegnava una materia teorica, Teoria e metodologia delle attività motorie, al gruppo misto (maschi e femmine) e una materia pratica, Ginnastica Ritmica, solo femminile. Le sue continue domande, la sua attenzione al nostro apprendimento... ma anche la severità, la competenza, l'autorità che esprimeva mi affascinarono subito. Organizzavo con le mie compagne di corso un'accoglienza ogni volta diversa, creativa, in movimento. Aprimmo il nostro gruppo solo femminile anche ai ragazzi che seguivano con noi le sue stupende lezioni teoriche. E questo era strano, in una facoltà che abilitava all'insegnamento separato per sessi: educazione fisica femminile, educazione fisica maschile. Gruppi di studenti divisi in squadre per sesso. E le materie teoriche tutti insieme... Viva la differenza! Viva Renata Facheris Ranucci. Alla fine del primo mese di corso le chiesi di fare la tesi con lei. Era il mio primo anno di Isef, avevo diciotto anni e mezzo. Mi guardò sorridendo e mi disse: - Senti. Le cose stanno così: una tesi deve essere di minimo 100 pagine? Ebbene tu la farai di 100 pagine. Non una di più. Ma tutte devono avere senso. - Mi permise di frequentare gratuitamente (in cambio della registrazione e della trascrizione dei corsi) la formazione in psicocinetica con il Dott. Jean Le Boulch che lei faceva venire in Italia e presto divenni la mascotte del gruppo. Fu un periodo molto intenso ma sentivo che era la mia strada. Non mi pesava studiare il doppio (visto che l'Isef era assolutamente di impostazione tradizionale), fare gli allenamenti e le partite (allora militavo in serie B) e lavorare per togliermi qualche sfizio... Era la mia strada. E per la tesi la Ranucci mi ha seguito passo passo, le portavo un paragrafo alla settimana e lei la volta successiva me lo riportava coi commenti, o i punti interrogativi, e qualche punto esclamativo per sottolineare la piena aderenza a quanto scrivevo. L'ho seguita anche dopo l'Isef, entrando nel gruppo di ricerca che lei presiedeva. Ed ho lavorato con lei fino al 1988, in una ricerca-azione sulla pratica psicomotoria nello sviluppo del bambino in età prescolare e scolare nella scuola primaria di primo grado e nella scuola dell'infanzia. Poi, anzi insieme, è arrivato il teatro. Ho frequentato alcune esperienze di teatro di sperimentazione negli anni '80 e nel 1992, insieme ad una serie di compagni d'arte e di vita abbiamo costituito un gruppo di ricerca teatrale dal nome Libera Mente, in cui mi occupavo, tra le tante cose, di pedagogia teatrale con gruppi di anziani, adolescenti e donne. Nasce allora la mia “fissa” per le donne. Dal 1994 al 1998 ho seguito un gruppo di adolescenti in una scuola a Monte di Procida (in provincia di Napoli), dal 1999 al 2006 un gruppo di donne anziane nella comunità alloggio “Cardinale Mimmi” di Napoli, e dal 2007 ad oggi curo il progetto LA SCENA DELLE DONNE – percorsi teatrali con le donne a Forcella. Ho una passione per gli ippopotami. Non so da quando né perché. So che ne ho tanti, di tanti materiali diversi e forme. Amo anche raccogliere conchiglie, sassi, foglie secche, vecchi giocattoli, libri a tre dimensioni e tante piccole cose. Ho una casa piena di “cose inutili”, come qualcuno dice. Ma le amo e non riesco a disfarmene. Conservo anche i bigliettini che mi scrivono e frammenti di carte da regalo. Conservo i materiali dei laboratori, i disegni, gli scritti, i brani musicali, foto, video, elenchi di oggetti e idee. La memoria di quello che abbiamo attraversato nei percorsi più o meno lunghi dei seminari o laboratori. Ho tanti quaderni di appunti, scritti a matita, sempre. Che non cancello. Forse ho scelto la matita perché non lascia segni sul foglio, forse perché la grafite ha un colore leggero, che mi appartiene.

Non aspettatevi da me frasi brillanti ma la ruvida lingua delle foglie. La lingua lenta della luna e delle notti. Altri sapranno. Altri capiranno. Altri governeranno le parole. Io conosco soltanto frasi d’era e la traccia che il vento lascia tra le messi.
Bronislawa Wais "Papusza"

Come ti definisci in quanto attivista?

Sono una che c'è, che si occupa delle persone intorno e che ha scelto la cura come modalità di relazione. E per questo mi ritengo attivista.

Quali sono le sfide che hai incontrato nel tuo percorso?

Mi è capitato diverse volte di far fatica a far comprendere alle istituzioni la necessità di progetti come quello che svolgo. Ho spesso ricominciato “daccapo”. Ma non ho mai smesso di ideare e realizzare i percorsi teatrali con le fasce ritenute più deboli. Dico ritenute, perché nella mia esperienza, invece, sono le fasce più forti, radicate nel presente e richiedenti diritti, anche tra i più semplici, spesso a loro negati.

Quali sono gli aspetti che ti motivano maggiormente nel tuo impegno?

La ricaduta nella vita personale, relazionale e sociale delle persone, innanzitutto. La bellezza dell'attività che abbiamo svolto (e stiamo svolgendo) e anche la sua unicità, sta nel mettere insieme, operatrici comprese, donne di provenienza, età, cultura diverse, attraverso le arti della scena. E sentire che questo percorso ha gettato un seme sulla qualità della vita di ciascuna.

Quali sono le questioni relative ai diritti che ti stanno più a cuore e perché? Quali sono i progressi più significativi che hai osservato durante il tuo attivismo? Ad esempio quali cambiamenti nelle donne di Forcella…

Penso alla libertà di espressione, come diritto fondamentale. Donne che pensavano di non aver niente da dire e che attraverso l'arte del teatro sono riuscite a raggiungere un livello di consapevolezza e di autodeterminazione, che ha consentito loro di superare piccole e/o grandi sopraffazioni familiari e culturali. Attraverso un lavoro sull’espressione corporea, sulle possibilità vocali, sulle immagini, sulla composizione, sulla manualità e sul teatro di attore, le donne hanno imparato (e noi con loro) a conoscere meglio se stesse, le proprie capacità espressive e creative, e a dare voce alla loro potenza decisionale. Con l’uso della scrittura autobiografica e del narrare di sé si interviene empiricamente sulla consapevolezza di sé e degli altri, si stimola l’uso di un linguaggio capace di farsi intendere, si genera responsabilità e si favorisce la pratica della cittadinanza attiva. Queste pratiche con le donne (mamme, nonne, figlie, nipoti) creano una comunità molto forte, che ha come motore e legame un grande stimolo culturale: il teatro.

Quali sono i tuoi obiettivi futuri?

La formazione di operatrici resta uno dei miei principali obiettivi degli ultimi anni. E poi agire sul presente. Sempre. Realizzare progetti con le donne, partendo dalla spinta e necessità comunicativa delle stesse, facendosi un po' da parte in qualità di operatrici, ascoltando tanto, utilizzando metodi che mettono al centro la persona. Il laboratorio teatrale è il luogo in cui si può abitare in libertà: si può sentire attraverso i sensi, si può immaginare grazie alle idee proprie e degli altri, si può ascoltare, parlare e comunicare attraverso il movimento e/o con la parola, le immagini, il canto.... Esplorando i linguaggi specifici del teatro si elabora materiale narrativo partendo dalle emozioni e dai vissuti delle partecipanti. E così, senza giudizi o pregiudizi, si scoprono differenti scelte ed esperienze generazionali, alimentando scambi di storie, memorie, utilizzando anche immagini, oggetti, musiche, e quanto altro possa servire a raccontare meglio la propria storia.

Come vedi il rapporto tra attivismo e impegno civile, e quali sono le strategie più efficaci per coinvolgere la comunità?

Attivismo e impegno civile sono per me strettamente legati. L'esperienza fatta mi porta a pensare che il lavoro espressivo e di consapevolezza attraverso una pratica che non sia quotidiana siano fondamentali per il coinvolgimento della comunità. L'attività artistica e formativa che svolgo con le donne, ad esempio, ha una ricaduta su tutta la famiglia e, quindi, indirettamente, sulla vita quotidiana in tutti i suoi aspetti. La consapevolezza conquistata è un patrimonio per l'intera comunità. Il linguaggio teatrale, che è il mio campo d'azione, riesce a sviluppare competenze, a colmare le distanze culturali, a far socializzare le persone, a formare il gruppo, ad integrare le diversità e, non ultimo, a creare le condizioni migliori per una crescita equilibrata della persona nella comunità in cui vive. Il teatro come alimento, utensile, come luogo del ritrovamento di sé, della propria storia, della propria dimensione di soggetto e del proprio ruolo all’interno del mondo che abitiamo. La storia di questi ultimi anni ha messo bene in evidenza come i processi di trasformazione sociale, urbanistica, culturale delle nostre città siano stati più facilmente fatti propri dagli abitanti e dai gruppi quando il senso di questi cambiamenti poteva essere metabolizzato da esperienze forti di relazione e vicinanza.

Come si può promuovere una maggiore sensibilità verso i temi dell'uguaglianza e dei diritti nelle scuole?

Per me è essenziale il lavoro su se stessi, l'attenzione all'altro, le discussioni sui pregiudizi e stereotipi, molti legati al fattore culturale. Partire dal quotidiano, dai gesti abituali in casa , a scuola, al lavoro, nel tempo libero, ecc. (tipo: cosa si fa e chi fa cosa) per rendersi conto che ci sono abitudini, modelli e convenzioni radicate nel tempo. E che tutti ne siamo coinvolti, volendo o no. Osare progetti che attraverso l'arte operino sulla qualità della vita, anche come segnale forte che non è con la repressione che si combatte la violenza e la prevaricazione, ma con la consapevolezza e la pratica di una cittadinanza attiva.

Come hai gestito il carico emotivo che l'attivismo spesso comporta?

Ho una memoria tattile. Di tutti (allievi/e, insegnanti, attori e attrici, operatori e operatrici, donne con cui ho lavorato) ricordo qualcosa sul mio corpo. C'è chi mi sta sulle mani, chi sulla schiena, qualcuno dietro la nuca. Molti sulle gambe, sui piedi, sulle braccia, sul ventre, sul petto, sul viso... Migliaia, potrei dire. E di tanti ricordo le caratteristiche. E di ognuno qualcosa. Quando ci incontriamo, anche se è passato del tempo, mi basta poco per risalire a fatti, occasioni, parole vissute insieme. Quante persone mi hanno seguita, ascoltata. Quante persone ho seguito, ascoltato. E, come ho iniziato, finisco con una citazione, che da sempre accompagna il mio lavoro: "Non essere altro che il semplice gesto di chi ascolta." - Il gesto cavo. Botho Strauss