DONNE E DIRITTI
Intervista a Rosetta Papa

Dottoressa, ci racconti di lei, del suo attivismo, delle scelte che hanno segnato la sua vita personale e professionale e del ruolo fondamentale che ha avuto nella salute delle donne a Napoli.
La scelta di studiare Medicina forse non è stata una vera scelta. Nella mia famiglia erano tutti ingegneri ed io ho sentito il bisogno, che non so bene spiegarti da dove venisse, di scegliere un percorso che mi facesse stare vicino alle persone, che mi rendesse utile. E così è nata la mia strada. La scelta di specializzarmi in ginecologia è arrivata quasi per esclusione: non ho scelto psichiatria perchè mi spaventava “il potere della mente”, con tutte le sue sfaccettature, e non ho scelto “pediatria” perché vedere un bambino che soffre mi avrebbe proprio resa assolutamente incapace di un giudizio, di una valutazione logica che magari un medico deve avere di fronte a un paziente. Nella mia storia professionale due tappe sono state cruciali. La prima tappa è stata quella di Torino, nel 1977. Lavoravo al Sant’Anna, il più grande ospedale del Piemonte ed è lì che ho conosciuto per la prima volta la discriminazione. In quegli anni a Torino c’era una certa ostilità verso i meridionali, sulle case trovavi cartelli che dicevano "non si affitta ai meridionali" e c’era una capo ostetrica che non mi chiamava per nome ma "Napoli". Eppure, è stata un'esperienza importantissima: mi ha fatto crescere umanamente e professionalmente. Molte delle pazienti che incontravo venivano dal Sud, quando chiedevo da dove venissero, molte cercavano di mascherare l’accento, fingendo un finto piemontese, ma poi spuntava fuori che erano di Napoli, o della Calabria. Provavo una profonda empatia per quelle donne. Vivevano in una città che le respingeva, ma portavano con sé una forza silenziosa. Il secondo snodo cruciale è stato il mio ritorno a Napoli e l’incontro con i consultori. Ho lavorato a lungo al Policlinico, fino al 1997 e devo dire che la clinica ostetrica è stata quella che mi ha formato da un punto di vista non solo professionale, ma anche dal punto di vista dell’atteggiamento nei confronti di un'attività, di un metodo, una ricerca e soprattutto un rigore. Ho sempre affiancato il mio lavoro ospedaliero all’impegno territoriale. Ho lottato per la nascita dei consultori, per l’approvazione della legge 194, per il diritto delle donne a decidere sul proprio corpo. Ricordo ancora il mio primo incarico a Miano, un quartiere di Napoli situato nell'area nord della città che all’epoca non sapevo neanche dove fosse. La sede era in una strada che si chiamava “Cupa delle Vedove” – un nome simbolico, quasi cinematografico. Lì ho imparato tutto, ho capito cosa rappresentano davvero i “determinanti sociali della salute”, ben prima che diventassero un concetto accademico. Ho visto, toccato con mano, cosa vuol dire vivere nell’esclusione, nella povertà, nel disagio. Nel 1981 il consultorio di Miano era un centro d’eccellenza, non per merito mio, ma perché ci credevamo tutti: psicologa, assistente sociale, pediatra, ostetrica. Lavoravamo in équipe, motivati, presenti ed è lì che ho deciso di restare. Quando fu necessario scegliere tra l’ospedale e il territorio, non ho avuto dubbi: volevo essere utile dove il bisogno non arriva dichiarato, ma va decifrato. Il consultorio è il luogo in cui il bisogno di salute spesso non viene nemmeno espresso, lì ho imparato a riconoscerlo. Tra il 1997 e il 1998 scelsi di lasciare il Policlinico. Fino ad allora, per fortuna, era possibile fare entrambi i lavori perché i consultori funzionavano mattina e pomeriggio, persino il sabato, e riuscivo a conciliare con le ore del Policlinico perché avevo un contratto a gettone. Poi arrivò il momento della scelta, e io scelsi il territorio.
Nel suo lavoro al consultorio hai anche promosso momenti di condivisione con le donne del quartiere, giusto?
Sì, a Miano abbiamo creato i “gruppi donna”. Facevamo gruppi tematici sul parto, sull’aborto, sulla menopausa e le donne del territorio partecipavano e si prestavano a farsi filmare per documentare gli incontri. Abbiamo fatto dei video che proiettavamo poi durante le celebrazioni per l’ 8 marzo oppure nei festeggiamenti che organizzavamo spesso insieme. Una delle più attive era la salumaia di fronte al consultorio: preparava i panini e poi diceva "a che ora ci vediamo stasera?". Era condivisione vera, era politica, nel senso più alto del termine. “Il personale è politico” dicevamo qualche decennio fa, e lo è ancora oggi anche se sembra dimenticato.

Medica, attivista e pioniera della sanità territoriale a Napoli
Come è riuscita a conciliare questo impegno con la vita familiare e con due figli?
Semplice: senza il mio welfare familiare non ce l’avrei mai fatta. Il mio welfare si chiamava nonna Maria e zia Cenza, mia madre e mia zia. Se non ci fossero state loro, io non avrei potuto fare nulla di tutto questo, o almeno non con la stessa dedizione. E qui voglio dirlo alle giovani donne: la forza ce l’abbiamo, la resilienza anche ma spesso non ne siamo consapevoli ed è per questo che, nonostante la mia età, continuo a scrivere, a parlare, a insistere.
Quali sono state le sue sfide più grandi?
Tante. La prima, essere donna in un mondo di uomini. In clinica ostetrica alla Federico II, quando arrivai, ero una delle pochissime specializzande donne. Le donne che lavoravano lì erano quasi tutte personale di pulizia o paramedico ma anche occupandomi di prevenzione e salute delle donne – temi visti come minori nella gerarchia della medicina – ho dovuto faticare. La medicina è ancora gerarchica, ospedalocentrica, accademica. Nessun esponente politico va ad inaugurare un centro vaccinale, ma tutti tagliano nastri per inaugurare nuove TAC, eppure i vaccini salvano vite. Dopo il Covid si è detto tanto di potenziare il territorio, ma nulla è cambiato, il territorio resta dimenticato.
E oggi, cosa consiglierebbe a una ragazza che vuole seguire il suo percorso?
Le direi di farlo assolutamente perchè c'è bisogno di donne che scelgano sì la ginecologia, ma anche che sappiano vedere l’aspetto politico del loro lavoro. Non partitico, ma politico nel senso più profondo: impegnarsi per i diritti, per la salute pubblica, per la dignità delle donne. Non basta saper fare bene il proprio mestiere, serve sapere perché lo si fa, serve autenticità perché le donne si fidano solo se capiscono che sei lì per loro, davvero. Che ne pensi dell’intelligenza artificiale e del suo impatto sulla salute e sull’etica? Mi spaventa perché ad esempio gli algoritmi danno per scontato la neutralità, ma nulla è neutro. Ho già visto come l’IA possa banalizzare perfino una relazione medica. Tu dai quattro input, e ti restituisce slide e discorsi. Ma allora chiunque può parlare, anche chi non ha mai toccato con mano la sofferenza. E poi mi preoccupano le selezioni, per esempio a Medicina: si fanno test solo su cultura generale, matematica, fisica, ma nessuna domanda sull’etica, sul dolore, sulla vita e la morte. Stiamo tagliando fuori persone magari fortemente motivate, ma che non sanno il teorema giusto. Questo è pericoloso. Per quanto riguarda l'intelligenza artificiale ci sono cose che sono spettacolari, altre sono preoccupanti. Ad esempio se devo preparare una relazione do all'intelligenza artificiale quattro input e quella mi prepara anche le slide. Sai cosa vuol dire? Che chiunque può parlare, chiunque può intervenire e dire cose senza averne competenza e questo fa danni. Altro aspetto che mi preoccupa dell'intelligenza artificiale è la sua applicazione ai test di medicina, ad esempio. Fino all'anno scorso, i test di ingresso a medicina contenevano esclusivamente domande di cultura generale, matematica, fisica, materie scientifiche insomma: non c'era una sola domanda che riguardasse l'atteggiamento etico di questa persona nei confronti della vita e della morte, nei confronti del dolore, non c'era una domanda relativa ai propri valori, nessuna domanda di tipo umanistico. Ciò vuol dire che vengono tagliate fuori dall’ Università persone che non conoscono un teorema ma che magari sono fortemente motivati a raggiungere l'altro come persona. Questo è ciò che accade quando la selezione viene fatta dall’ intelligenza artificiale ed è qualcosa di preoccupante.
E allora chi può vigilare su questi cambiamenti?
Sicuramente noi donne perché abbiamo a cuore parametri diversi. Perché abbiamo vissuto sulla nostra pelle cosa significa combattere per i diritti e per la dignità e perché ancora oggi, le donne delle periferie – come quelle che ho conosciuto a Miano – portano sulle spalle la fragilità del mondo.
